mercoledì 27 aprile 2011

Italia per caso L'unità nazionale? Non c'è. Parola di studiosi stranieri.

di Bruno Giurato

Visti da lontano facciamo una figura interessante, volendo. Si sa che l'Italia, per la pubblicistica straniera è un verde pascolo di luoghi comuni: su Google adWords, la piattaforma che consente ordinare i risultati della ricerca di parole chiave in base alla popolarità, si scopre che la frase “italian culture” è immediatamente correlata alla parola “pasta”, 11 milioni di ricerche mensili globali. Come dire che, per il mondo anglosassone, cultura italiana equivale a un piatto tipico: è una gran botta di fortuna che non ci sia il mandolino. Poi ci sono gli articoli della serie italiani-imbroglioni, che potrebbe far rima con qualsiasi cognome che finisca in '-oni'. E anche lì si trovano facilmente una serie di pezzi sul presidente del Consiglio, di solito così dozzinali che fanno venire voglia di votare Popolo della libertà (Pdl) a vita, farsi missionario di libertà e affidare la propria figlia 17enne al consigliere Nicole Minetti.

L'Italia, un mix di identità separate

Ma ci sono anche articoli e libri interessanti. I 150 anni dell'unità e il fatto che siamo protagonisti (più in male che in bene) nella guerra in Libia hanno generato un italian moment nella stampa internazionale. Con spunti notevoli, come l'intervento di Tim Parks sul New Yorker dell'11 aprile 2011, intitolato «Che cosa davvero affligge l'Italia». Parks, che insegna alla Iulm di Milano, è un esperto e appassionato della cultura italiana. E recensisce un libro ben documentato: The failure of italian nationhood di Manlio Graziano (Palgrave), uno studioso italiano che lavora all'estero.
L'UNITÁ CHE NON ESISTE. In tempi di celebrazioni e 150ennali forzati (e reazioni centrifughe altrettanto fasulle) la tesi di Graziano è puro buon senso. Secondo lui, semplicemente l'unità d'Italia non esiste. La nazione è il risultato di «un senso potente di identità separate», l'epopea risorgimentale è frutto di una combinazione più che rocambolesca, casuale del tutto. La tesi non è nuova: la disunità d'Italia è stata l'ossessione di tutti gli intellettuali, da Petrarca a Jacob Burckhardt. Ma secondo Graziano ne discendono alcuni comportamenti standard della politica italiana: la tendenza conservatrice e l'incapacità di riforma innazitutto.
LA DIALETTICA DELL'IRRILEVANZA. Parks cita un altro studio, The politics of Italy di James Newell (Cambridge), per spiegare il fatto che i politici «non cerchino una genuina risoluzione dei conflitti [...] ma preferiscano tenere il conflitto aperto», perché lasciare le cose irrisolte permette un margine di trattativa. Insomma, quella dei politici italiani per Parks e gli autori che cita sarebbe una strategia dell'irrilevanza. Ha funzionato finché l'economia tirava, ed è costata le inflazioni a due cifre degli anni Settanta e la paralisi di adesso. La sua conclusione è simbolica: «Mentre uscivo a fare colazione il giorno dell'anniversario, il solo segno di festa era un piccolo tricolore attaccato allo specchietto retrovisore di un camion della spazzatura». Come dire: italiani rassegnatevi, non esistete.

L'unità nazionale: una botta di fortuna

Più o meno la stessa tesi che troviamo inThe pursuit of Italy di David Gilmour (Allen Lane). Gilmour è il traduttore in inglese de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, anche lui appassionato d'Italia non solo per la pasta e il mandolino. Secondo lo scrittore, la botta di fortuna da parte del piccolo re di Sardegna fu essersi trovato un Garibaldi che gli regalava mezz'Italia (da altri studiosi sappiamo quanto fu utile la solida cassa del Regno delle due Sicilie a un Piemonte dissanguato dalla guerra e dalle spese per finanziare rivolte pseudopopolari). Le conclusioni di Gilmour sono moderatamente leghiste: serve uno stato federale che «celebri la diversità delle regioni».
UNITI COME FASCI. Secondo Michael R. Ebner, autore di Ordinary violence in Mussolini's Italy (Cambridge university press) il fascismo ha usato la costrizione, e la guerra, in funzione identitaria. Ebner polemizza con la tesi di Renzo De Felice, quella del consenso al regime della maggior parte della popolazione, e insiste sul concetto mussoliniano degli italiani popolo di pecore. Ma il risultato paradossale della sua tesi è questo: Mussolini disgregò l'unità nazionale perché perse la guerra.
Si potrebbe malignamente chiosare: se il Duce avesse vinto, il sentimento dell'unità ora sarebbe più sentito e diffuso. Alla faccia del 25 aprile. Insomma, siamo in pieno italian moment. Ma le conclusioni rischiano di essere politicamente scorrette e un po' anticostituzionali. Facciamo proprio una figura interessante, volendo.

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