di Stefano Bruno Galli
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Vi sono delle circostanze in cui la storia si prende delle grandi rivincite e impartisce severe lezioni. È il caso della discussione delle ultime settimane in ordine agli accorpamenti regionali. Una discussione in parte generata dalla straripante vittoria, alle recenti elezioni in Emilia Romagna e in Calabria, dell’astensionismo. E dunque, dalla necessità di rifondare il regionalismo, anche alla luce del dibattito parlamentare relativo alla trasformazione del Senato in un’Assemblea di rappresentanza delle autonomie locali e alla revisione del Titolo V della Costituzione repubblicana.
Con buona pace del governatore della Campania, Stefano Caldoro, che ne rivendica la primogenitura, e di Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, ma anche dei parlamentari del Pd Roberto Morassut e Raffaele Ranucci, che hanno depositato un disegno di legge costituzionale per ridurre le regioni da 20 a 12, l’idea di razionalizzare l’articolazione amministrativa della Penisola e di procedere con alcuni necessari accorpamenti è assai vecchia. E affonda le proprie radici alle origini del regionalismo italiano. Di questo bisogna esserne consapevoli e non far finta di nulla. Ma dal dibattito di questi giorni emerge che ognuno illustra la propria “ricetta” – sovente improvvisata – come la più innovativa e incisiva, efficace e vincente.
Bisogna insomma fare i conti sino in fondo con la storia. E la storia ci racconta che, sin dalla prima legislatura regionale (1970-75), alcuni avveduti osservatori individuarono nel numero dei soggetti istituzionali – 15 regioni a statuto ordinario, alle quali bisognava aggiungere le 5 a statuto speciale – il principale problema del regionalismo. Anche perché la Repubblica, che aveva ereditato dal fascismo 16 “regioni”, ci aveva messo del suo – aggiungendone altre 4 – nel polverizzare ulteriormente l’articolazione della penisola. 20 regioni – dissero – sono troppe perché inevitabilmente si trasformeranno in altrettanti centri di spesa incontrollabili a gravare sulla finanza pubblica, che così diventerà ingestibile. Mai profezia fu più azzeccata: il risultato, tabelle e statistiche alla mano, è sotto gli occhi di tutti.
Nei fatti, la dimensione delle regioni risultò sin da subito una questione nevralgica eppure sottovalutata. Fecero eccezione alcuni coraggiosi protagonisti di quella stagione: il primo presidente della regione Lombardia, Piero Bassetti, il primo presidente della regione Emilia Romagna, Guido Fanti, e l’allora preside della facoltà di Scienze politiche della Cattolica di Milano, Gianfranco Miglio. Il cleavage centro-periferia nelle democrazie avanzate funziona bene quando lo Stato si confronta con dei soggetti istituzionali decentrati che sono grosso modo omogenei. Come può lo Stato centrale di Roma avere dei rapporti equilibrati con il Molise (poco più di 300mila abitanti) e con la Lombardia (quasi 10 milioni) oppure con la Valle d’Aosta (128mila) e con la Sicilia (5 milioni)? L’ha sostenuto pure la Fondazione Agnelli nel 1992, proponendo la soppressione delle regioni al di sotto del milione e mezzo di abitanti, da accorpare in base alle vocazioni economiche e produttive territoriali, alla fisionomia sociale, alla storia e alle tradizioni culturali.
Non solo, ma la dimensione funzionale delle regioni – così come concepite in Costituzione – è davvero ibrida: se da un lato, infatti, sono troppo grandi per avere un rapporto diretto con i cittadini, dall’altro sono troppo piccole per avere delle politiche ambiziose e di ampio respiro. E vi sono delle funzioni – l’ambiente o le infrastrutture, solo per fare due esempi – gestibili solo in forma aggregata macroregionale. “Le regioni del Titolo V della Costituzione – scriveva Miglio nel 1975 – erano unità amministrative la cui dimensione corrispondeva tutt’al più alle esigenze dello Stato ottocentesco: tant’è vero che erano state ‘inventate’ dai tecnici di governo liberali, specialmente piemontesi, tra il 1859 e il 1865: nel 1948 erano già largamente anacronistiche”.
Ben venga dunque che la classe politica si sia resa conto, dopo quarantacinque anni, della necessità di procedere con gli accorpamenti per ridurre le regioni e razionalizzare la pianta amministrativa della Penisola. Meglio tardi che mai. Il problema cogente è che il Parlamento sta attualmente dibattendo una riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione nell’ambito della quale vengono ridisegnate in senso fortemente centralista le prerogative del sistema regionale, sulla base delle attuali 15 regioni a statuto ordinario. E su questo disegno neocentralista paiono essenzialmente gravare i recenti scandali dei rimborsi, anche se sono piuttosto le strategie macroregionali varate a livello europeo – per esempio la macroregione adriatico-ionica o la macroregione alpina – a mettere davvero in scacco il regionalismo e a imporne una radicale riorganizzazione. Logica imporrebbe, tuttavia, che gli accorpamenti precedessero la ridefinizione delle funzioni. È perciò necessario bloccare la riforma costituzionale, pensare e progettare gli accorpamenti, procedere con la riduzione delle regioni (magari le 3 macroregioni di Miglio sono poche, ma le 6 di Minghetti o le 12 della Fondazione Agnelli vanno benissimo), e poi – ma solo in un secondo momento – individuarne le funzioni. Altrimenti si combinerà il solito pasticcio all’italiana.
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